Discinto il vel che con brumale volto aveva conquise le rupestri vette, verso lo Stella con radioso manto scintilla il sole.
Scintilla nuovo e domina i silenzi di illibate contrade, ove l’umano occhio si posa a ritrovar la quiete dei suoi dissidi.
Ed allo spazio, dal signor del giorno così indorato, sale un lento suono e da Fraciscio si diffonde al cielo la pia campana.
Giunge allor lieto, in questi giorni, pronti al finir dell’ inverno, in sul pendio, il fanciulletto e con la mano ignara si volge all’aura.
O piccol cuore, trepido ed innocente, che nulla sa e pur nota il mistero della vicenda natural che afferma vita al creato!
La man piccina fa suonar la squilla per richiamar la primavera amica e un fremito si accende in tante altre mani piccine.
Di sotto al giogo di una vetta antica si stende un suon di pini al suon del vento che di aromate arbori indora: salubre regno!
Salta il camoscio sulle dirupate schiene dell’ Alpi e si avvicenda ratto presso le madreporiche morene dell’Angeloga.
“O montanina” poi ripete il canto di voci agresti “O dolce montanina dell’Angeloga” e a lor risponde un coro e triste e lieto.
Tutto il ghiacciaio che par fermo e pure si evolve, in massi erratici, riluce al sol che arde, con radioso assioma riverberando,
dardi che le gran raffiche fan miti delle tormente con nival rigore. Dentro le stalle il villanello munge le manze quiete.
E noi del latte la cadente panna assaporiam, come delizia grata a spirito giovanil, senza pensieri di duolo o angoscia. ›
Mentre allo spazio, dal signor del giorno così indorato, sale un lento suono e da Fraciscio si diffonde al cielo, donando speme.
Io là mi fermo solitario. E il crine agito al vento. Il Trillo di un pennuto abitator silvestre ascolto e ignoro la sua favella.
Fraciscio par sognar nella sua conca montana. E laggiù Campodolcino annuncia al cuore dell’uman travaglio l’opra consueta.
L’uman travaglio che nel lento corso dei torrenti si invola ai tormentati piani d’Italia, ove nel cupo suono Marte contende.
Intorno io miro e grave in fondo al core mestizia scende e ne domando causa al sussurrar dei pini ed al creato che parla e tace.
E dell’infanzia mia tutti i ricordi surgon novelli: il cielo si fa scherno dei miei passati dì: lagrima dona iride al sole.
Oh! Sol che piangi di dorato pianto di me, bambin, di me fanciul cresciuto! Oh! Sol, rinnova, le speranze infrante, montano sole.
Fa ch’io senta la vita cara e lieta, poeta pronto ad applaudir natura, pura disciolga la mortal nequizie alpina fonte.
Che la mia man non tremi e che piccina la squilla suoni e invochi primavera, eco gentile al villanello alpestre che il male ignora.
Non diverso il tramonto insegna e dice. Non diverso il notturno vento inquieto che spira e nasce dai misteri eterni dell’Angeloga.
E tu sideria face, che tremante lo sconfinato cosmo all’occhio scerni, diverso forse è il tuo parlar, sublime, celeste stella?
Io vedo e ascolto estasiato e il labbro della mia musa verso te si apre vuol proferir suo verso, ma smarrito alpin rimane.
Inconscia intanto dal fatal colloquio di terra e cielo, di speranze e sogni, umile e lieta, nel montan declivio dorme Fraciscio
Prof. Angiolo Viti di Bologna (scritta nella primavera del 1945, mentre si trovava sfollato a Fraciscio)
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